Ucciso per un’auto, risolto ‘cold case’ a Milano dopo 25 anni

Ucciso per un’auto, risolto ‘cold case’ a Milano dopo 25 anni

Carmine Carratù fu ucciso in via Ippocrate a Milano il 17 febbraio del 1992 con 13 colpi di pistola esplosi da due armi diverse, in pieno stile mafioso. Ma degli assassini e dei mandanti nessuna traccia fino ad oggi. I carabinieri di Milano hanno risolto un cold case dopo 25 anni grazie all’approfondimento nato da una costola dell’indagine “Rinnovamento” del 2014. In quell’occasione furono arrestate una sessantina di persone con le accuse di associazione a delinquere di stampo mafioso: l’indagine rivelò la potenza della ‘ndrangheta e il controllo sul territorio di Milano. Fra gli indagati anche i fratelli Campo, titolari di una concessionaria di automobili in via Varesina 66. Questi si erano rivolti ai clan calabresi, in particolare a due affiliati (anche loro coinvolti nella maxi inchiesta) Giulio Martino e Giuseppe Lucara per essere “difesi” da una richiesta di denaro per estorsione fatta loro dalla mafia siciliana. I due affiliati però non erano due nomi qualsiasi, ma emissari del “gruppo Branca”, il gruppo criminale che faceva capo a Domenico Branca, di Melito Porto Salvo (ora 59enne) rappresentante milanese dei clan De Stefano di Reggio Calabria. I contatti dei titolari della rivendita di automobili dimostravano l’organicità al sistema allora creato dai clan calabresi. Della concessionaria parlò anche un collaboratore di giustizia, Vittorio Foschini, riconoscendo che era riconducibile al boss reggino, il quale aveva “chiesto un’autorizzazione” per uccidere un ragazzo che aveva fatto uno “sgarro” ai due fratelli proprietari della rivendita. Quel ragazzo era proprio Carratù: allora giovanissimo e senza precedenti ma descritto come una testa calda. Presso la concessionaria nell’89 era stato lui a comprare una Volkswagen Golf, che era poi stata danneggiata lungo la strada: lui stesso l’aveva poi riportata in concessionaria a riparare e l’aveva e “versata” in cambio di una nuova dello stesso modello. La macchina era quindi stata sistemata e rivenduta – ma senza un regolare passaggio di proprietà – ad un certo Salvatore Traversi. I contatti dei titolari della rivendita di automobili dimostravano l’organicità al sistema allora creato dai clan calabresi. Della concessionaria parlò anche un collaboratore di giustizia, Vittorio Foschini, riconoscendo che era riconducibile al boss reggino, il quale aveva “chiesto un’autorizzazione” per uccidere un ragazzo che aveva fatto uno “sgarro” ai due fratelli proprietari della rivendita. Quel ragazzo era proprio Carratù: allora giovanissimo e senza precedenti ma descritto come una testa calda. Presso la concessionaria nell’89 era stato lui a comprare una Volkswagen Golf, che era poi stata danneggiata lungo la strada: lui stesso l’aveva poi riportata in concessionaria a riparare e l’aveva e “versata” in cambio di una nuova dello stesso modello. La macchina era quindi stata sistemata e rivenduta – ma senza un regolare passaggio di proprietà – ad un certo Salvatore Traversi. Un biglietto da visita con il nome di Salvatore Traversi è stato trovato nel portafogli di Carratù il giorno dell’omicidio. Grazie a quel nome scritto a mano dalla stessa vittima gli investigatori sono stati in grado di risalire all’episodio e al movente dell’omicidio. A fornire quel nome erano stati proprietari della concessionaria dopo le insistenze del giovane Carratù, che voleva sapere a chi fosse andata la sua auto dopo che lui l’aveva ceduta. Gli avevano dato il nome, forse, per evitare le sue continue lamentele relative al fatto che multe da pagare e bolli arretrati per tre anni continuavano ad arrivare a lui in quanto i concessionari avevano rivenduto il mezzo senza fare il passaggio di proprietà regolarmente. Qualche giorno dopo però, il 14 gennaio, la Golf, di cui nel frattempo anche il secondo proprietario si era liberato e aveva restituito, prese fuoco, misteriosamente, proprio nel cortile del rivenditore. Un incendio mai denunciato. A questo, appena due settimane dopo, il 30 gennaio, del ‘92, seguì un altro rogo: 4 auto andarono in fumo nello stesso cortile: tra quelle anche la macchina del fratello di uno dei boss di ‘ndrangheta del tempo, Luigi Mendolicchio. I carabinieri di Milano, oltre a risalire agli atti, sono anche riusciti a sentire uno dei vigili del fuoco che operò per spegnere quel rogo, questa volta denunciato. Nessun dubbio sulla natura dolosa. La vendetta per quell’incendio, fu la morte dell’allora 24enne Carmine Carratù. Una delle auto utilizzate dai killer, hanno stabilito gli inquirenti, fu anche segnalata e multata in divieto di sosta davanti al ristorante “Vico Equense” di Milano, allora luogo dei summit di ‘ndrangheta e dove lavorava una parente del boss Domenico Branca. Lui quindi è stato considerato il mandante dell’omicidio ed è stato raggiunto dall’ordine d’arresto in carcere, oggi, nel 2017. Attualmente il 59enne, sta scontando una condanna all’ergastolo. L’altro mandante individuato è proprio Mendolicchio, che nel frattempo è deceduto. Per due volte i gip avevano rigettato le richieste dei pm che seguono il caso fino dall’indagine “Rinnovamento”, per “mancanza di elementi individualizzanti”: è stato il tribunale del riesame a rivalutare le indagini di magistrati e investigatori e a consentire l’arresto.

 

 

 

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