‘Ndrangheta: operazione Gdf, clan padroni porto di Gioia Tauro
REGGIO CALABRIA. Attraverso imprese fittizie e prestanome, i clan della ‘ndrangheta erano diventati padroni del porto di Gioia Tauro, controllandone in maniera capillare ogni attività, allungando le mani anche nell’economia del nord. Metodi, retroscena e protagonisti dell’infiltrazione mafiosa nel più grande scalo portuale del Mediterraneo sono emersi dall’opperazione “Porto Franco” con la quale la Guardia di Finanza, stamane, ha arrestato 13 persone, esponenti dei clan Mole e Pesce, ed apposto i sigilli giudiziari a 23 aziende e a beni per un totale di 56 milioni di euro. L’operazione, coordinata dalla Dda di Reggio calabria, è scattata alle prime luci dell’alba e a disegnato il quadro di una mafia imprenditrice, capace di sfruttare a proprio vantaggio sistemi di isnerimento nell’economia apparentememnte legali. Oltre 200 i Finanzieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria impegnati, con l’ausilio di appartenenti allo Scico di Roma, che hanno effettuato 53 perquisizioni in Calabria, Lombardia e Veneto. Con il provvedimento cautelare, emesso dal GIP presso il Tribunale di Reggio Calabria, le Fiamme Giallehanno colpito nei confronti gli esponenti delle due cosche reggine responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere di stampo mafioso nonchè dei reati di riciclaggio di proventi di illecita provenienza, di trasferimento fraudolento di valori, contrabbando di gasolio e di merce contraffatta, di frode fiscale, attraverso l’utilizzo e l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e di omesso versamento delle ritenute previdenziali, tutti aggravati dalle modalità “mafiose”. L’operazione è scattata dopo le verifiche fiscali avviate nei confronti di imprese operanti nel settore dei trasporti e servizi connessi da e per il Porto di Gioia Tauro, nel corso delle quali sarebbero emersi elementi indiziari circa la riconducibilità dei titolari alle due cosche di ‘ndrangheta. La cosca Pesce, in particolare, si sarebbe infiltrata nei servizi connessi all’attivià del porto di Gioia Tauro esercitando un controllo soffocante sulle attività economiche della zona portuale che avrebbero assicurato all’organizzazione, ingenti risorse finanziarie da riciclare in attività apparentemente lecite. Il sistema di controllo dei servizi connessi alle operazioni di import-export e di trasporto merci per conto terzi realizzato dalle cosche nel porto di Gioia Tauro, la cui estensione ricade in ben due comuni, San Ferdinando e Gioia Tauro, era, secondo gli inquirenti, “asfissiante”. Le misure cautelari emessa dal Gip del Tribunale di Reggio Calabria riguardano anche persone fino ad ora mai coinvolte in operazioni di polizia. Si tratta di personaggi preposti alla gestione delle imprese dell’organizzazione che, secondo l’accusa, hanno rivestito un ruolo determinante dapprima nell’acquisizione dei proventi di attività estorsive, perpetrata attraverso l’imposizione a imprese terze dell’obbligo di contrattare esclusivamente con loro, facendo leva sulla forza intimidatrice di cui disponevano. Il ruolo delle aziende e, quindi, dei rispettivi rappresentanti legali era quello di creare disponibilità di risorse liquide, attraverso la contabilizzazione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, da corrispondere agli elementi di spicco delle cosche Pesce e Molè. Ciò era reso possibile sia attraverso intestazioni fittizie di società a persone terze, direttamente riconducibili ai vertici della cosca “Pesce”, sia mediante il ricorso all’utilizzo di fatture false emesse prevalentemente da distributori stradali e da società cooperative nei confronti delle aziende di trasporto riconducibili alla cosca “Pesce”. Ma le indagini hanno consentito di appurare che la cosca Pesce perseguiva e consumava anche reati di contrabbando, consistenti nell’importazione di merce contraffatta dalla Cina in evasione di dazi e diritti doganali. Infine, gli approfondimenti investigativi eseguiti nei confronti delle aziende di trasporto riconducibili alla cosca alcune delle quali operanti nel Nord Italia, in particolare a Verona, hanno evidenziato l’utilizzo di imprese cooperative che si sono interposte tra esse e i clienti finali. Le cooperative di lavoro, in questo scenario, avrebbero avuto quale unico scopo quello di fornire uno schermo giuridico alle imprese della cosca, le quali – una volta “esternalizzati” i propri lavoratori, facendoli solo formalmente assumere dalle cooperative, e ceduto fittiziamente in comodato i mezzi d’opera alle stesse – avrebberocontinuato a operare direttamente senza preoccuparsi del pagamento degli oneri erariali che gravavano interamente sulle false cooperative. Le stesse cooperative a successivamente fatturavano alle imprese beneficiarie della frode prestazioni di servizi, simulando inesistenti contratti, e così consentendo loro la fraudolenta contabilizzazione dei relativi costi ed Iva a credito. Le cooperative di lavoro si sono rivelate società di fatto inesistenti, interposte al fine di caricarsi tutti gli oneri impositivi, contributivi e previdenziali mai versati. Scatole vuote che cessavano l’attività dopo breve tempo e i cui rappresentanti erano prestanome nullatenenti.