Elezioni israeliane, ancora nessuna certezza: al Likud manca la maggioranza per formare il Governo

Il 23 marzo scorso gli israeliani hanno affrontato la quarta tornata elettorale nell’arco di due anni, questa volta registrando la più bassa affluenza alle urne fin dal 2009, pari al 60,9%. Netanyahu (foto) ha giocato la sua campagna elettorale facendo leva su due grandi successi: un programma sanitario che ha reso Israele leader mondiale nella campagna di vaccinazione, e la svolta diplomatica che ha portato lo Stato Ebraico a normalizzare le proprie relazioni con gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain, il Marocco, il Sudan e il Kosovo. Nonostante abbia riportato queste vittorie, l’immagine del Premier in carica da 11 anni è minata dalle accuse di corruzione, frode e abuso di potere, che lo vedono coinvolto in un processo giudiziario sospeso in vista delle elezioni. Se il Likud non riuscirà a formare una coalizione di maggioranza cosa succederà agli israeliani? E cosa ai palestinesi? Alla prima domanda pare aver risposto Netanyahu stesso con l’affermazione: “o un governo di destra guidato da me o un quinto voto”. Difatti la coalizione dei partiti arabi dal nome Joint List, insieme al secondo partito arabo Ra’am, rappresentano gli unici partiti non sionisti dell’arena parlamentare israeliana. Il resto dei partiti che variano dalle minoranze di sinistra (Labor party), alle maggioranze di centro-destra (Yesh Atid) e di destra (Likud), sino alle minoranze dell’estrema destra ultraortodossa (Shas), sostengono un dialogo diplomatico con i vicini palestinesi improntato alla supremazia della sicurezza e dell’ebraicità di Israele all’interno del paradigma della soluzione a due stati. Quest ultimo prevede un rinnovato dialogo bilaterale tra Israele e l’ANP, l’Autorità Nazionale Palestinese nata dagli accordi di Oslo, con l’obbiettivo di giungere ad un accordo di pace che possa garantire da una parte l’incolumità, la democraticità e l’ebraicità di Israele e dall’altra il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese che desidera edificare un proprio stato nazionale. Questa linea politica è sostenuta dall’Italia, dall’Unione Europea, da molti paesi arabi e chiaramente è fortemente caldeggiata dagli Stati Uniti. Pare dunque che esista una comunione d’intenti circa il raggiungimento della pace nell’area, eppure gli insediamenti israeliani continuano ad espandersi in Cisgiordania, mentre i missili di Hamas e le rappresaglie israeliane continuano a terrorizzare gli abitanti di Gaza e di Israele. Sebbene entrambe le parti dichiarino di essere pronte al dialogo, in realtà sono animate da posizioni intransigenti che vedono il Likud portatore dell’idea del Grande Israele per cui l’intera Palestina storica, compresa Cisgiordania e Gaza, è territorio appartenente ad Eretz Israel, ossia alla Terra di Israele, la quale un giorno verrà riunificata all’attuale Stato di Israele. Mentre Hamas, partito palestinese di matrice islamica, insieme ad una fetta della popolazione laica disillusa e frustrata dal governo di Mahmoud Abbas, attuale leader dell’ANP, sostiene la visione della Grande Palestina. Visione che considera palestinesi i territori su cui si estende attualmente Israele, i quali un giorno faranno parte del futuro Stato di Palestina. In definitiva se Netanyahu non riuscirà a formare una coalizione di governo e dovrà affrontare una quinta tornata elettorale, il dialogo con le istituzioni palestinesi continuerà nel torpore in cui vaga da due anni a causa dell’inconcludenza dei risultati elettorali israeliani. Ma potrebbe cristallizzarsi ulteriormente se le elezioni parlamentari e presidenziali che si terranno in Palestina il 22 maggio e il 31 luglio di quest’anno, condurranno alla vittoria di Hamas. Nel caso in cui Netanyahu venisse riconfermato premier, si potrebbe riaprire un nuovo canale diplomatico che con fatica e lentezza porterebbe ad un accordo di pace pur non soddisfacente per entrambe le parti. Per quanto concerne il nostro paese, l’Italia insieme all’Unione Europea esercitano una scarsa influenza sul processo di risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Sebbene l’Italia non consideri legali gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e sebbene nel 2001 durante il suo turno di presidenza al Consiglio dell’Unione Europea abbia inserito Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche, rimane un paese amico di Israele, ma non ha il potere né di indirizzarlo a considerare nuovi criteri di dialogo, né di sanzionarlo, spronandolo a riconsiderare la propria politica nei confronti dei palestinesi.
Carla Macrì