di Carlo Rippa
In economia, il pareggio di bilancio è la condizione contabile di un’azienda che si verifica quando, nel corso di un anno, le entrate finanziarie conseguite eguagliano le uscite sostenute. L’eccedenza delle uscite finanziarie sulle entrate genera il disavanzo o deficit di bilancio, con conseguente ricorso all’indebitamento e formazione del “debito pubblico”. Il Parlamento italiano, con legge costituzionale del 20 aprile 2012, n.1 ha introdotto, nell’ordinamento giuridico italiano, il principio del pareggio del bilancio pubblico, modificando gli articoli 81-97-117 e 119 della Carta Costituzionale. E’ facilmente comprensibile, quindi, per quale motivo in Italia, tra gli argomenti di macroeconomia più discussi, figuri, da qualche tempo, il predetto principio costituzionale. Ma è proprio indispensabile vincolare il governo del Paese al pareggio del bilancio pubblico, senza specificare nel contempo il livello minimo di soddisfazione dei bisogni vitali dei cittadini che, comunque, dovrebbe essere conseguito dal Governo? Pareggio e disavanzo sono due parole che di per sè indicano poco o nulla. I due predetti risultati contabili sono semplicemente un tassello di un complesso mosaico, che indica come il Governo decide di raccogliere e spendere le proprie risorse. Il pareggio e il disavanzo di bilancio devono essere correttamente valutati in funzione della qualità di vita prodotta dalle scelte governative adottate nell’anno di riferimento. Di conseguenza, è del tutto comprensibile chiudere un bilancio in disavanzo in periodo di guerra, o di eccezionali calamità naturali, oppure quando l’economia versa in fase di forte e perdurante recessione. In tali ipotesi, le entrate tributarie diminuiscono sensibilmente e se, nel contempo, il governo tentasse di perseguire l’obiettivo del pareggio di bilancio, aumentando i tributi o diminuendo la spesa pubblica, in presenza peraltro di una disoccupazione in crescita inarrestabile, aggraverebbe ulteriormente la situazione. Al di fuori dei predetti casi, è altresì facilmente comprensibile che sarebbe controproducente perseguire l’obiettivo del pareggio di bilancio tagliando, ad esempio, le spese per l’istruzione, o quelle per la salvaguardia del territorio dai dissesti idrogeologici, o per la sanità pubblica, l’istruzione pubblica, l’ordine pubblico, l’ordinamento giudiziario, l’ordinamento carcerario, la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, eccetera eccetera. Dunque, il risultato annuale del bilancio pubblico non può che essere interpretato alla luce degli “indici” registrati dagli appositi Enti, con riferimento all’economia, al Pil, alla disoccupazione, al risparmio, agli investimenti, ai consumi, all’inflazione, alla deflazione, all’ambiente, alla burocrazia, alla giustizia, alla scuola, alla corruzione nella pubblica amministrazione, alla criminalità organizzata. Soltanto alla luce di detti e di altri “indici” significativi, sarà possibile comprendere il significato del pareggio o del disavanzo del bilancio pubblico, indipendentemente dal significato comunemente attribuito alle due parole. In estrema sintesi, dunque, detti risultati potranno essere ritenuti soddisfacenti nella misura in cui saranno conseguenti a scelte di governo razionali e lungimiranti, che mirano a rendere positivi i predetti “indici”, migliorando la qualità della vita individuale e collettiva. Gli stessi risultati, al contrario, saranno ritenuti negativi, nella misura in cui rappresentano l’inevitabile conseguenza dell’ignoranza, della ipocrisia, della corruzione e dell’istinto di conservazione della politica al potere, la quale semplicisticamente ritiene più conveniente aumentare la spesa pubblica invece della imposizione fiscale. In buona sostanza è sempre necessario tenere presente, come già detto, che il disavanzo pubblico consegue a un’eccedenza delle spese pubbliche sulle entrate del periodo, con conseguente ricorso all’indebitamento. Ridurre detta eccedenza comporta l’aumento delle entrate oppure la diminuzione delle spese (o una combinazione delle due cose). Una politica di bilancio di assoluto buon senso, suggerirebbe di provvedere alla diminuzione del disavanzo pubblico attraverso un sostanzioso aumento dell’imposizione a carico dei ricchi ed un contemporaneo aumento delle spese a favore dei poveri. Detta politica, oltre a rappresentare il giusto antidoto all’iniqua distribuzione della ricchezza, rappresenterebbe una spinta alla domanda, che non sarebbe comunque sufficiente. Infatti il Governo, considerata la profondità della recessione, dovrebbe dare alla domanda un’ulteriore considerevole spinta, dell’ordine di alcune decine di miliardi di euro, attuando la così detta politica della “spesa in deficit”. Il risultato sarebbe un notevole aumento del Pil in breve tempo, nel mentre l’aumento dell’indebitamento risulterebbe alquanto contenuto, per effetto delle minori spese e del maggiore gettito fiscale prodotti. Soltanto dopo, a recessione superata, si potrebbe pensare a redigere un forte e credibile programma pluriennale di consolidamento del bilancio pubblico, puntando soprattutto sul significativo recupero dell’evasione fiscale e su misure non convenzionali di politica monetaria. Mi fermo qui, non prima di avere sottolineato che il cronico e crescente disavanzo di bilancio dell’azienda-Italia è, a mio parere, il frutto naturale e inevitabile della inadeguata e fallimentare gestione del Paese, da addebitare totalmente alla politica. E’ ancora possibile sperare nel futuro?. Come ho chiarito in altre occasioni, sono profondamente convinto che la “conversione” della politica incompetente e corrotta, costituisce uno di quegli accadimenti che possono verificarsi unicamente “per caso” o “per miracolo”.