REGGIO CALABRIA. Il padre agente della Polizia ferroviaria, la madre infermiera; lei diciassettenne, studentessa, con tutte le aspirazioni e le abitudini dei suoi coetanei. Una famiglia normale, nella quale è maturata una tragedia, probabilmente scatenata da un banale rimprovero dovuto ad uno scarso rendimento scolastico e, soprattutto, dalla conseguente decisione dei genitori di privarla del cellulare e del computer. Quello che a prima vista era apparso come un suicidio si è invece rivelato come il più terribile degli omicidi. Perché a porre fine alla vita di C.P., infermiera di 44 anni, sarebbe stata la figlia non ancora maggiorenne. Un delitto, secondo i Carabinieri, non casuale, ma ben pianificato, che richiama alla mente la strage compiuta dai fidanzatini Omar ed Erika alcuni anni addietro. La ragazza, ora trasferita in un istituto minorile, deve rispondere di “omicidio aggravato dai motivi abbietti e futili” nei confronti della mamma. Dal 25 maggio scorso, quando, in piena notte, allertati dal fratello della vittima, trovarono la donna moribonda nella sua abitazione con una ferita d’ arma da fuoco alla tempia, gli inquirenti non hanno smesso di cercare la verità. Una verità che col passare delle ore ha assunto aspetti inquietanti. La donna era riversa su un fianco, sul letto della sua camera; vicino al corpo la pistola del marito. L’immediato intervento del personale del 118 era servito a poco, perché l’infermiera sarebbe morta da lì a poco. I Carabinieri, allora guidati dal capitano Gennaro Cascone e successivamente dal nuovo comandante della compagnia, Gaetano Piccione, hanno agito con la massima cautela data la delicatezza della situazione. Ma subito è stato loro chiaro che la vicenda era più complessa di quanto non apparisse. All’interno dell’abitazione, oltre alla vittima, c’era soltanto la figlia. Era stata quest’ultima ad allertare lo zio materno, riferendo fra le lacrime che qualcuno aveva sparato alla madre. “È stato un uomo, un uomo alto più di due metri” aveva detto. Con tutte le cautele del caso, la giovane è stata più volte sentita dagli investigatori. Le incongruenze del suo racconto, a partire proprio dalla descrizione dell’assassino, col passare delle ore, hanno alimentato i sospetti. Tanto più che un primo esame del cadavere e la successiva autopsia hanno escluso che la donna si fosse tolta la vita da sola. Dati poi suffragati dagli accertamenti tecnici svolti con l’ausilio del R.I.S. di Messina. È stato l’esame dello stub a sgomberare il quadro investigativo dagli ultimi dubbi sul fatto che a esplodere il colpo mortale fosse stata la ragazza. Poi gli accertamenti dattiloscopici che avrebbero certificato la presenza di un’impronta del dito indice della mano della ragazza sull’arma del delitto. Gli inquirenti parlano di “lucida freddezza e premeditazione”. Il divieto categorico dell’utilizzo del telefono cellulare e del computer, strumenti indispensabili per collegarsi con la realtà virtuale dei social network e che distraevano la studentessa dai suoi impegni scolastici, è stata probabilmente percepita come una punizione troppo pesante per la giovane omicida al punto di spingerla a desiderare prima ed a causare poi la morte della madre. La ragazza, trasferita in una località protetta dal riserbo, è stata affidata alle cure di specialisti. Dovranno scandagliare nei recessi del suo animo in cerca di una spiegazione che forse non troveranno.