REGGIO CALABRIA. Dieci persone, accusate a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla produzione e al traffico di droga oltre che di illecita detenzione, spaccio e produzione di sostanze stupefacenti, sono state arrestate dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabria nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla locale procura della Repubblica. L’operazione è stata chiamata in codice “pollice verde”. Alcune delle persone coinvolte sono state trasferite in carcere, per le altre sono stati disposti gli arresti domiciliari. Altre 3 persone risultano indagate a piede libero. Disposto anche il sequestro di beni.
Gli arrestati, secondo l’accusa, appartenevano a un’organizzazione operante nella zona centro-sud della città, prevalentemente nei quartieri di Pellaro, San Cristoforo e nel centro città, con a capo Domenico Di Grande, 60 anni, e Valentino Buzzan, 59. L’associazione aveva nella sua disponibilità 3 siti nei quali era coltivata marijuana. Si tratta di un’abitazione con annesso giardino nel quartiere di San Cristoforo, nonché altri due terreni nella zona sud della città. La droga era prodotta con metodologie tecnologicamente avanzate, tese a garantire un’eccellente qualità dello stupefacente coltivato. Durante le indagini sono state scoperte oltre 200 piante di cannabis, dalle quali l’organizzazione avrebbe potuto ricavare diverse migliaia di dosi di marijuana da distribuire direttamente alla vendita sulle piazze di spaccio cittadino. Da qui il nome attribuito all’operazione, “Pollice Verde”, assegnato con particolare riferimento, spiegano gli inquirenti, alla maniacale dedizione posta in essere dai criminali arrestati alla produzione dello stupefacente, con tecniche che sbaragliavano la concorrenza e garantivano elevati profitti. Nei siti di coltivazione, è stato, infatti, rilevato che la sostanza stupefacente era curata, annaffiata, raccolta, fatta essiccare e confezionata, per poi essere distribuita direttamente al consumo tramite una rete di pusher, tutti stabilmente partecipi all’associazione. In buona sostanza – dicono gli inquirenti – si trattava di un vero e proprio business “a km 0”.
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