REGGIO CALABRIA. Erano detenuti in regime di carcere duro, ma continuavano a percepire contributi agricoli destinati alle loro aziende grazie alla complicità dei dipendenti di un consorzio olivicolo. È quanto emerge dall’inchiesta che giovedì mattina ha portato all’esecuzione di otto misure cautelari da parte dei militari del comando Carabinieri per la Tutela Agroalimentare e del comando provinciale di Reggio Calabria. Quattro le persone in carcere, 3 agli arresti domiciliari, mentre per una è stato disposto l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Le ordinanze sono state emesse dal Gip del Tribunale di Reggio Calabria su richiesta della locale Procura della Repubblica. I destinatari, residenti in vari comuni della provincia reggina, sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere, concorso in falso materiale e ideologico commesso da incaricati di pubblico servizio, truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, aggravate dalla finalità di agevolare consorterie mafiose. Centinaia di migliaia di euro sarebbero il frutto di truffe aggravate per il conseguimento delle erogazioni pubbliche previste dai Fondi Europei Agricoli di Garanzia e di Sviluppo Rurale (Feaga e Feasr) ai quali avrebbe attinto la ‘ndrangheta. Gli indagati sarebbero, infatti, associati o contigui a noti casati mafiosi reggini, tra i quali i Gallico di Palmi, gli Alvaro di Sinopoli, i Lo Giudice di Reggio Calabria ed i Laganà-Caia di Seminara. Sostenuti dalla complicità di incaricati di pubblico servizio, ai quali pure è stato contestato il reato associativo, nel periodo 2010-2018 hanno beneficiato di contributi pubblici, erogati dall’Agenzia della Regione Calabria per le Erogazioni in Agricoltura (Arcea), nonché della disponibilità di titoli di pagamento della “Politica Agricola Comune”. I beneficiari, privi dei requisiti richiesti e peraltro gravati da misure di prevenzione personale o condannati per delitti di criminalità organizzata, grazie alla complicità e al sistematico contributo di alcuni dipendenti del consorzio olivicolo “Conasco”, aggiravano il loro stato di detenuti. Fra loro Teresa Gallico, ristretta al 41-bis. Benché in carcere, si rivolgevano all’organismo pagatore in qualità di imprenditori agricoli in attività. Le indagini hanno permesso di accertare numerose anomalie, di carattere formale e sostanziale, relative alla trattazione delle domande di accesso ai contributi, come la soppressione di documenti che, per legge, avrebbero dovuto essere custoditi dagli stessi incaricati di pubblico servizio. Gli operatori del centro di assistenza agricola “Copagri 102” di Reggio Calabria, riconducibile al consorzio olivicolo, delegati a formare e trasmettere elettronicamente all’Arcea le istanze di pagamento avanzate dagli arrestati, sarebbero stati perfettamente a conoscenza dello stato detentivo dei richiedenti. Teresa Gallico, sebbene detenuta dal 2010 a seguito dell’operazione “Cosa mia”, avrebbe percepito ininterrottamente contributi per 59.000 euro in qualità di titolare di un’impresa individuale inattiva dopo il suo arresto, proprio grazie alla complicità dei dipendenti della Conasco, che avrebbero attestato falsamente la presentazione della domanda da parte dell’interessata e intenzionalmente omesso di informare l’organismo pagatore del suo stato detentivo. Gli accertamenti bancari, peraltro, hanno consentito di appurare che parte dei proventi era indirizzata al pagamento degli onorari dei difensori di Domenico Gallico, pluriergastolano capo della cosca omonima. La Conasco Scarl è stata ora sottoposta alla misura cautelare dell’interdizione dall’esercizio dell’attività di assistenza agricola e sono stati eseguiti sequestri per equivalente delle occorrenze finanziarie degli indagati per una somma complessiva di oltre 220.000 euro.